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Diego_Armando_Maradona è stato un antico, eterno sogno


Ho visto Maradona… eppure non l’ho mai visto giocare dal vivo, ma solo molti anni più tardi in un albergo di Madrid.

L’ho visto quando da bambino scelsi di educare il mio sinistro, io destro naturale, per “imitarlo” al punto da diventare più mancino che ambidestro, sognando l’impossibile, come è giusto che sognino i giovanissimi.

L’ho visto nei racconti di un’epoca che si chiude oggi definitivamente, gli anni ottanta, ruggenti di modernità e tuttavia ancorati alle radici del secolo breve. Anni violenti e lenti (ancora per poco), vorticosi e destinati a segnare un’era, quella del passaggo tra il prima e il dopo l’esplosione dell’iper-connettività, del pan-consumismo, ad ogni costo, ad ogni prezzo.
Maradona è tutto ciò che ci siamo portati appresso del Novecento. L’eccesso sfrenato e sfrontato della poesia, quando si fa terrena.

L’ho visto, ancora, nella strafottenza dell’autodeterminazione del genere umano. Di un pibe qualsiasi che sin da piccolo decide che salverà il mondo, almeno quello degli ultmi aggrappati ad un pallone nella perenne ricerca di un conforto, di una speranza. Quiero jugar un mundial y salir campeón, diceva ad undici anni. E gliel’ho visto fare, salvare quel mondo, anche se solo per effimeri momenti, durante la sua non lunghissima carriera calcistica.

L’ho visto, ancora, mantenere promesse, giurare amori, come quando nell’84 lui, appena ventitreenne, arrivato a Napoli disse di voler essere l’idolo dei ragazzi poveri di Napoli, perché sono come ero io a Buenos Aires.

L’ho visto prendere parte, schierarsi, fottersene del politicamente corretto, parlare alto, parlare forte. Sporcarsi di fango per aiutare un amico in un campo di periferia, trascinare un popolo (ma chissà quanti) alla riscossa sociale e politica prima che sportiva.

L’ho visto, poi, essere un “dios humano“, fino in fondo. E fino in fondo ha pagato il peso del successo, dell’opprimente vortice del consumo mediatico in cui è finito sin da ragazzino. E lo ringrazio, per non avercelo mai fatto pesare. Per aver incassato calci e colpi, in campo e fuori, senza mai perdere la sua identità di ribelle (elegante, correttissimo e líder máximo sul prato verde, al limite, e oltre, della provocazione fuori).

Anche il “dribbling” è di per sé poetico […] il sogno di ogni giocatore (condiviso da ogni spettatore) è partire da metà campo, dribblare tutti e segnare. Se, entro i limiti consentiti, si può immaginare nel calcio una cosa sublime, è proprio questa. Ma non succede mai. È un sogno… (P.P.P.)

Con queste parole Pier Paolo Pasolini, che si riferiva al calcio come ad un linguaggio vero e proprio, con i connotati della poesia, della prosa e di tutti gli schemi propri di una lingua, definiva uno dei suoi momenti “sublimi”. E però forse si sbagliava, o forse no…

Qualcuno che dribblasse tutti, per di più in un mondiale di calcio, nella partita più politica della storia, c’è stato. Ed ha scritto quella ed altre pagine di poesia che avrebbero senz’altro entusiasmato il poeta bolognese.

L’ha visto anche Pasolni, Maradona, anni prima delle sue gesta. In un sogno, nei sogni dei bambini dimenticati delle periferie dei sud del mondo. E forse però proprio di un sogno si è trattato, di un antico ed eterno sogno.

Diego_Armando_Maradona, tutto d’un fiato come la sua vita, ha legato indissolubilmente, e volutamente, il suo mito a quella Napoli definita incorruttibile (come se stesso, del resto) dallo stesso P.P.P.. E l’ha fatto inconsciamente consapevole del fatto che nella città di Partenope i miti non muoiono, mai, neppure dopo quasi tremila anni di storia.
Resterà quello che è sempre stato: un amico, un padre, un figlio, uno scugnizzo, un fratello, un inarrivabile calciatore che non ci ha mai rinnegato, mai giudicato, sempre difeso e spronato a sognare l’impossibile. Perché l’impossibile è sempre dietro l’angolo quando hai al tuo fianco Maradona.

Grazie, Diego.
Che inizi la Storia, l’eternità ti attende.

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Politica, Società

L’eredità di quel 23 maggio 1992

Io la ricordo quella primavera-estate del ’92. Ero piccolo, molto, sette anni appena, eppure ricordo l’aria pesante di quelle bombe. La consapevolezza negli adulti di essere di fronte a qualcosa di inimmaginabile, per quanto violento e sfacciato.

Giovanni Falcone non doveva solo morire, doveva essere polverizzato, così come Borsellino. Non doveva restare di lui neppure un briciolo della sua sagacia, della sua tenerezza, della sua persistenza nella lotta a quella montagna di merda che voleva trasformarlo in una montagna di polvere.

La mafia uccideva nel 1992, uccide ancora oggi. Attimo dopo attimo si è andata costruendo quest’ Italia in cui son cresciuto e che mi ha visto partire. La mia coscienza, pure, si è arricchita di esempi, di eroi (quasi sempre sacrificati purtroppo, su tutti Pasolini) tanto potenti non solo da sopravvivere alla loro morte, ma da continuare a svolgere con ancor più forza la propria missione.

Il brutale assassinio di cui fu vittima, le centinaia di chili di tritolo, non sono stato altro che un detonatore silenzioso capace, nel tempo, e nelle coscienze giuste, di rafforzare quell’idea di tenacia e di Stato integro di cui spesso se n’è avvertita la mancanza negli ultimi decenni.

Di Giovanni Falcone, della magistrato Francesca Morvillo (sua moglie), degli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro parlerò a mio figlio. Che con l’innocenza dei suoi 11 mesi di vita dorme beato in questo momento in cui scrivo, baciato da un sole madrileño di fine maggio, portatore di speranza.
Un sole che si spense per un attimo in un pomeriggio di 28 anni fa e che invece non ha fatto altro che irradiare di forza e fiducia chi ha voluto e saputo ripercorrere le orme di questi martiri.

La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine.01-00109001003203

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Società

Marina Amores e la sua denuncia del maschilismo nel mondo dei videogiochi

marina amoresEl Intermedio (su La Sexta intorno alle 21.40) è un programma che spesso guardo con piacere qui a Madrid, perché è delle poche trasmissioni che riesce ad informare facendo vera satira, irriverente e comica, sui temi d’attualità.
Una delle rubriche più interessanti, è quella curata da una delle presentatrici, Sandra Sabatés: Mujer tenía que ser, dove si raccontano storie di donne, direttamente con la loro voce e dalla loro prospettiva, che stanno contribuendo a cambiare la visione maschilista e sessista dei nostri tempi.
Poche sere fa, una delle ospiti era Marina Amores, esperta in comunicazione audiovisiva applicata ai videogiochi.

Marina raccontava quanto sia questo un settore difficile per le donne. Lei è giocatrice professionista e sa perfettamente che quando una donna vuole addentrarsi nel mondo dei videogiochi, si scontra automaticamente con un “rifiuto del sistema”. Da quelli che chiama “atteggiamenti paternalisti“, di chi ti regala premi o oggetti nel gioco, a chi ti rende la partita piuttosto sgradevole pur facendo parte dello stesso team, con frasi come “preparami un sandwich” o “vai a lavare i piatti”, i comportamenti maschilisti sono innumerevoli e molto comuni nelle partite online,  spiega Marina.
Ironizzando, per quanto si possa, su questi stereotipi, A fregar è il titolo che ha scelto per il suo blog, creato affinché tutte le donne appassionate di videogiochi potessero condividere le proprie esperienze come vittime di atteggiamenti sessisti.
Del resto con lo stesso obiettivo di aiutare a dare visibilità e ad aumentare la consapevolezza su questo problema, da alcuni anni esistono varie pagine web che racclgono gli insulti maschilisti ricevuti online, durante una partita, da migliaia di giocatrici. Basta andare, ad esempio, su Fatuglyorslutty per capire di cosa parliamo.

Marina racconta che iniziò a riflettere su questi comportamenti quando, come YouTuber dedicata al mondo dei videogiochi, si rese conto che spesso i commenti degli utenti erano rivolti alla sua persona, a come era vestita, al suo fisico più che ai contenuti esposti; aggressioni verbali subite da moltissime donne e che l’hanno portata ad utilizzare, ora, solo una voce off nei suoi video di presentazione.
“Non è vero che non ci sono donne appassionate di videogiochi”, sottolinea, basti pensare che in Spagna il 47% dei giocatori amateur è composto da donne, ma le giocatrici professioniste non superano neppure il 5%. Il problema è che la pratica online, che è la vera “Academy” per milioni di players nel mondo, è resa difficile e poco gradevole dai problemi sopra esposti.

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Una celebre eroina dei videogame: Cortana (Halo)

Anche se c’è molto ancora da fare, Marina tuttavia crede che con l’arrivo di professioniste nella produzione di videogiochi, qualcosa cambierà. Ad oggi i personaggi femminili dei video games sono quasi sempre relegati a ruoli secondari, passivi, spesso con vestiti succinti (vedi foto in alto) e in attesa di essere salvate da qualsivoglia eroe maschile…
Adesso, per fortuna e anche se molto lentamente, le cose stanno cambiando. Ora che anche le donne stanno iniziando a creare videogiochi si stanno aprendo “nuove prospettive e scrivendo nuove storie che aiuteranno la forma che abbiamo di vedere il mondo”.

Questo si, e ne è convinta anche Marina Amores, “nessun cambiamento sarà mai possibile senza il supporto degli uomini“; è giunto il momento che si impegnino anche pubblicamente per una società meno fondata sui valori del maschilismo e del sessismo.

 

[scritto in esclusiva per il blog di Fanpage.it]

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Arte & Letteratura, Società

La lunga strada di sabbia: una recensione sulle orme di PPP

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Alcune pagine degli articoli originali

Lo confesso, ho sempre amato la gigantesca portata intellettuale di Pier Paolo Pasolini. L’ho amata sin da ragazzino, quando ho provato a recepirne i riflessi sparsi in tutti i suoi libri, quando ho trascorso ore ad ascoltare i suoi interventi televisivi, a cercare di capire (e carpire) l’audacia interpretativa dei suoi capolavori cinematografici.
Mi ha accompagnato sempre, in ogni momento di crescita fisica e intellettuale, e credo di poter affermare con certezza che il punto di svolta, di passaggio dall’età dell’adolescenza a quella adulta, sia stato un libro mai finito, un affresco nero e incompleto di quello che fummo e che probabilmente siamo, il libro  Petrolio. Con questo grosso volume, la cui stesura fu interrotta dall’uccisione del poeta Pasolini, ho compreso il peso che lo scrittore avvertiva su di sé, scevro e al tempo stesso impregnato sino al midollo dalle oscenità politiche e sociali del suo (nostro) tempo. Con Petrolio ho smesso definitivamente di cercare scappatoie alle schifezze del mondo: erano lì, davanti a me e a tutti noi, ed evitarle non sarebbe stato più possibile.


Qualche tempo fa, mi sono imbattuto in un libro fotografico composto dagli appunti elaborati in articoli per la rivista “Successo”, scritti da Pasolini nel 1959, per raccontare un viaggio lungo le coste italiane. La lunga strada di sabbia (pubblicato da Contrasto nel 2005) è un reportage del poeta romagnolo nato da un percorso poi ripreso dal fotografo Philippe Séclier, che a quarant’anni di distanza ne ha ritratto i luoghi e gli scenari sociali. È un libro, degli appunti (con tanto di manoscritti originali), che non avevo mai letto e che consiglierei a tutti.
Nelle pagine di questo lungo cammino, al volante di una Fiat Millecento, c’è l’Italia del boom economico ancora incerta, sincera eppure già corrotta in molti aspetti. Nelle migliaia di chilometri percorsi ci sono i locali alla moda e senz’anima della riviera romagnola (o meglio con un’anima venduta al progresso), la miseria di alcune periferie sociali e culturali dove si rincorre ancora il tozzo di pane per sopravvivere ma, soprattutto, c’è molto incanto.


L’Italia vista da Pasolini nel 1959 è tutto un susseguirsi di emozioni, come quando superata Roma, provenendo dalla Liguria, gli si dipana davantil’affascinante Sud. Pasolini è un bambino alla ricerca delle sensazioni di gioia e verità già perdute sul finire degli anni cinquanta e forse mai pienamente recuperate.
In quell’Italia Taranto è ancora un città antica e meravigliosa, il suo mare cristallino e la Puglia un paradiso di persone vere. L’Ilva è solo un fantasma, i mostri dell’Italia, di cui ci scandalizzeremo solo più avanti, sono tutti presenti in nuce negli angoli visitati dallo scrittore. Eppure tutto sembra avere ancora una speranza, derivante più che altro dal passato, dai contadini, dai ragazzi dai volti spigolosi del Sud, dalla passionale innocenza dei giovani del Nord.
L’Italia mi è parsa un vero unico paese, leggendo il libro, ed era molto che non la vedevo così. Diversa, diversissima da costa a costa, da settentrione a meridione, passando per le borgate romane. Un paese di cui si fa presto a sentire la mancanza non appena lo si incontra, fosse anche attraverso le pagine di un libro, e che tuttavia è la stessa terra che abbiamo lasciato scivolare nell’indecenza dell’abuso, edilizio e non solo. Nel vandalismo della corruzione ad ogni costo.
Ho avuto voglia di ripercorrerla quella Italia, quella di oggi. Il viaggio continua ad essere la miglior forma di confrontarsi con la realtà, quella di un paese vivo, ma solo sotto la superficie, laddove le volgarità di certo progresso faticano ad attecchire e dove le differenze culturali si trasformano in opportunità.
È un libro che dovrebbero leggere tutti. Un viaggio per chi ha smesso di sognare per colpa di qualche euro in più.

 

[Già pubblicato per Pronews]

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Società

“Doing God’s work”, ovvero il grande equivoco di essere Charlie

10931416_843835585674487_9123322211951587597_n-620x360Da quando è accaduto il terribile attentato di Parigi, e l’incredibile vicenda del supermercato preso in ostaggio, ho provato più volte a cercare di imboccare un cammino col pensiero in grado di tirarmi fuori dall’impasse mediatica in cui, inevitabilmente, si scivola in questi casi.
L’emozione, la scossa violenta a cui di colpo pare impossibile sottrarsi ci ha catapultati in un comprensibile stato di angoscia e terrore, una sensazione già provata in passato, che però sembra ora aver raggiunto l’acume massimo. Ci sconvolge questa tragedia perché in fondo, ad essere stati colpiti, stavolta sentiamo di essere stati proprio noi, non i passanti sfortunati deflagrati con una bomba, non il giornalista finito suo malgrado nelle mani di aguzzini lontani, ma noi, ovvero un obiettivo ben preciso della nostra società, eliminato come da programma, senza difficoltà, senza possibilità d’opposizione.
Trascorsa qualche ora, ho però iniziato a domandarmi se, una volta di più, l’emozione non mi avesse portato su di un sentiero contorto e fuorviante rispetto alla ricerca dell’obiettività di giudizio, e ci sono alcuni punti, nello specifico, che mi piacerebbe analizzare con un po’ di lucidità.

Siamo tutti Charlie
L’attentato ha scatenato la corsa alla solidarietà e all’unione (come sarebbe giusto per qualsiasi tragedia, a qualsiasi latitudine), ma ha anche portato tutti a rivendicare il diritto alla tanto declamata libertà d’espressione. Eppure quando Charlie Hebdo pubblicava vignette charlie-hebdocontro il Papa o contro le gerarchie cattoliche (immagine a lato) non mi pare di aver sentito politici nostrani (mi limito a quelli) difendere l’operato del giornale. Vignette considerate blasfeme e che io non sono sicuro di condividere nella loro forma, ma che formano parte di quel complesso mondo rappresentato dalla libertà d’espressione. Oggi siamo tutti Charlie, ma forse avremmo dovuto esserlo sempre, l’avremmo protetto di più. Perché libertà di manifestare il proprio pensiero vuol dire soprattutto permettere a chiunque di esprimere un’opinione contraria alla nostra (e non solo a quella degli altri).

 

 

I sicari degli dei
Possibile che gli dei del monoteismo, onniscienti e onnipotenti abbiamo sempre bisogno di un vendicatore in carne ed ossa sulla Terra? Non potrebbero una buona volta venir giù e darsele di santa (pardon) ragione? Trovo ridicolo che al mondo ci sia ancora chi agisce nel nome degli altri ma del resto è un’abitudine ben nota anche al mondo occidentale. Senza andare troppo in là (non tirerò fuori nuovamente la storia delle crociate), Dio è presente nel discorso di guerra alla Somalia di Bush senior, “Doing God’s Work! È presente in quelli di suo figlio, prima dell’attacco in Afghanistan e in Iraq, solo per citare alcuni esempi. Guerre che hanno desertificato culturalmente intere aree geografiche ancor più di quanto non lo fossero con i loro regimi e che ora si ritrovano ad essere porzioni ingovernabili del pianeta, svuotate da ogni possibilità di democrazia e perfetto focolaio di estremismi di ogni tipo.
Oggi si tende a sottolineare la matrice islamica degli attentati alla prima occasione possibile, eppure pochi anni fa lo stesso risalto non fu dato alla matrice cristiana dell’attentatore norvegese Breivik che uccise, nel nome di Dio, 77 giovani in un paio d’ore.
La religione, che del resto oggi è una ideologia più che una fede, se imposta agli altri è sempre un pericoloso fondamentalismo sociale. Poi, è chiaro, ognuno fa la guerra con le proprie armi ma io, in tutta sincerità, la coscienza non me la sento così pulita se è vero come è vero, che le politiche della mia porzione di mondo non cessano di causare scontri, frazionamenti e povertà ad altre popolazioni (approfondirò volentieri il tema in un altro pezzo).

Guerra all’occidente, o forse no
Molti in questi giorni si sono svegliati con pagine dei giornali che aprivano in modo feroce, con le immagini dell’uccisione del poliziotto di guardia alla sede dell’Charlie Hebdo, e con parole che nella migliore delle ipotesi indicavano uno stato di assedio del “nostro” mondo occidentale e delle nostre culture. L’attentato dell’altro giorno è avvenuto a Parigi, nel cuore dell’Europa, di uno dei luoghi più democraticamente avanzati. Tuttavia i terroristi di matrice fondamentalista islamica (ma che, come detto, con l’islam vero hanno poco a che fare), normalmente seminano terrore e morte soprattutto nei territori orientali. Oltre alla Siria, vi sono altre zone caldissime da questo punto di vista. Circa un mese fa, a metà dicembre, un attacco kamikaze in Pakistan, a Peshawar, ha compiuto una vera e propria strage in una scuola: circa 150 morti di cui più di 130 erano bambini. L’attacco, rivendicato dai talebani, non ha destato troppo scalpore mediatico alle nostre latitudini, non siamo scesi in piazza, non eravamo “tutti cittadini di Peshawar” e non siamo andati a manifestare alle ambasciate pakistane del nostro paese per testimoniare solidarietà. Non l’abbiamo fatto noi, non l’hanno fatto i francesi e, soprattutto, nessun quotidiano ha titolato “Guerra all’innocenza dei bambini in Pakistan” o qualcosa del genere. Semplicemente la nostra indignazione è durata 10 minuti, tra una forchettata e l’altra durante il telegiornale. Questo per dire che ogni giorno questi stessi criminali uccidono decine e decine di persone (parliamo di migliaia di morti in totale), per lo più musulmani come loro, ma che con il terrorismo, ovviamente, non hanno niente a che fare. In un mondo globale, se non impareremo ad avvicinarci alle tragedie che accadono dall’altro lato del mondo, non saremo in grado di difenderci quando le stesse cause le porteranno a casa nostra. Un problema globale va affrontato nella sua totalità.

Not in my name
Se da un lato c’è chi si serve schifosamente del Dio della guerra, dall’altro c’è chi, in queste ore, sta provando a prendere le distanze da una strumentalizzazione globale dell’attacco di Parigi per la quale musulmano=terrorista. La comunità islamica internazionale, e quindi ogni singola rappresentanza locale, sta provando a ribadire ancora una volta che queste azioni violente nulla hanno a che fare con la fede in Allah. Per sintetizzare il madornale errore in cui ci lasciamo trasportare ogni qual volta accade un episodio simile, voglio ricorrere ad un post di un mio collega di Pronews, il quale dalla sua pagina facebook scriveva: Se per 3 assassini riuscite ad odiare 1.6 miliardi di musulmani nel mondo non dovrebbe sembrarvi strano che per i 3 assassini di Stefano Cucchi si possano odiare tutte le 300 mila unità delle forze dell’ordine italiane. Lo sforzo logico è ben meno oneroso, il fatto è che non funziona proprio così. L’assurdità dell’assioma si riassume in queste poche righe (grazie Andrea!). In fondo sarebbe come se ogni italiano venisse considerato mafioso dagli altri, e vi assicuro che la percentuale di mafiosi in italia è ben superiore a quella dei terroristi musulmani.
Altrettanto evidente è, comunque, che più saranno le autorità del mondo islamico a schierarsi apertamente e con forza contro le correnti fondamentaliste, più i terroristi resteranno senza alibi. Più noi sapremo dialogare con il mondo arabo e più faremo fronte comune contro chi minaccia il vivere civile delle nostre popolazioni. Possiamo quindi scegliere se provare ad ammazzare le mosche con le granate, o togliere gli elementi che le attirano, consapevoli del fatto che chiudere le finestre non ci salverebbe.

Cavalcare l’onda dello sgomento
Ci stanno provando in tanti, ci stanno riuscendo in moltissimi. Le destre xenofobe trarranno un indubbio “vantaggio” da questi giorni di terrore. In Francia la presidente del Fronte Nazionale, pur sforzandosi di controllare la propria vena xenofoba – le elezioni si avvicinano, cliccare qui per credere – ha proposto di effettuare un referendum per introdurre nuovamente la pena di morte per atti di terrorismo. Non sarà difficile ribattezzarla “Le Pen” de mort, se continua con le sue politiche terroristiche (generando terrore nei cittadini).
Dal canto nostro, il perennemente verde di rabbia e non solo, Matteo Salvini, ha iniziato ad inveire sui social e attraverso i media tradizionali, contro qualsiasi cosa gli ricordi un musulmano o un immigrato. Ha iniziato a rilasciare dichiarazioni di una banalità e un’inesattezza sbalorditive che persino la sua proverbiale faccia da duro leghista, è parso non potesse trattenere le smorfie.

 

salviniTra le panzane di più successo, c’è quella secondo cui l’immigrazione contribuirebbe fortemente al terrorismo. Oltre a ignorare il fatto che sia nell’attacco di Parigi sia in quello di Londra di qualche tempo fa, i terroristi erano cittadini dei rispettivi paesi, cittadini europei nati e cresciuti nel nostro continente, Salvini finge di non sapere che l’odio maturato verso “il diverso” è frutto anche dei seminatori di paura come lui, in grado di spaccare le categorie sociali su valori identitari. Oltretutto, volendo approfondire, basta dare un’occhiata al rapporto tra immigrazione e omicidi nel nostro paese (ad esempio in questo articolo ben fatto) per capire che non esiste alcuna relazione tra violenza omicida e immigrazione e che, anzi, nelle regioni con maggior flusso migratorio, il tasso di omicidi è minore.

Staremo a vedere se passata l’onda emotiva (che molto spesso porta con sé cattive idee e valutazioni erronee) si inizierà a ragionare sul serio sulle vere ragioni che alimentano il terrorismo internazionale. Non bisognerà quindi soffermarsi solo sulla favoletta dello scontro fra culture e religioni. Non bisognerà far finta di ignorare che l’Europa e l’occidente tutto, da decenni alimentano queste cellule impazzite con politiche scellerate e accordi indicibili che, spesso, armano letteralmente i terroristi (in questo senso consiglio un ottimo libro sull’argomento di Roberto Biancotto).
Sogno una tavola rotonda, magari semestrale, tra leader politici occidentali e rappresentanti del mondo islamico, per discutere sulle azioni comuni da adottare per prosciugare le sacche del terrorismo internazionale, ma ho smesso di credere nella politica, o meglio nei politici. Mi affido dunque ai miracoli, laici, della modernità. Alle mobilitazioni spontanee in grado di formarsi attraverso la rete e di accomunare milioni di giovani, diversi per religione, paese e cultura per lottare uniti contro ogni sopruso, per denuniciare ogni abuso di libertà altrui. Perché sarebbe bello poter affermare sempre  je suis musulmane, chrétien et juifs, ils sont particulièrement Charlie!

[In alto il vignettista tunisino “Z” racconta a modo suo l’attacco del 7 gennaio]

Post di @Paolo_Minucci [scritto per Pronews.it]

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