Arte & Letteratura, Non luoghi

Alzheimer, autoritratti di un artista

Nel 1995, all’artista britannico William Utermohlen [in alto un autoritratto del 1967] fu diagnosticato l’Alzheimer. Un responso che ancora oggi purtroppo suona quasi come una sentenza dal momento che, a prescindere dalla rapidità dell’evoluzione della malattia, l’aspettativa di vita dal momento della diagnosi va dai 3 ai 9 anni.
Nonostante ciò, William, appresa la notizia decise di affrontare la malattia con una struggente serie di autoritratti, realizzati in 5 anni dal 1995 al 2000, documentando così il graduale decadimento delle sue facoltà mentali.
Terrore, tristezza, rabbia e rassegnazione si esprimono mentre l’artista lotta per preservare la sua coscienza artistica, contro il graduale progresso della demenza e la deportazione forzata verso il non-luogo dell’Alzheimer.

Un saggio della vedova dell’artista, Patrizia, spiega perfettamente perché le immagini che seguono sono così necessarie e potenti: “In queste immagini vediamo con il cuore spezzato, le sue paure e la sua tristezza”. È difficile dire se i cambiamenti nei ritratti sono dovuti principalmente alla perdita di capacità cognitive o piuttosto al decadimento dello stato d’animo ma, ad ogni modo, testimoniano l’emotiva agitazione di un artista che assiste alla dissoluzione e all’allontanamento della propria mente dal proprio IO, pezzo a pezzo, ricordo dopo ricordo.

Detail Sel Portrait with car 1995

Detail Sel Portrait with car 1995

Self Portrait with Easel 1996

Self Portrait with Easel 1996

Self Portrait (Red) 1996

Self Portrait (Red) 1996

Self Portrait with Saw 1997

Self Portrait with Saw 1997

Self Portrait (Yellow) 1997

Self Portrait (Yellow) 1997

Self Portrait with Easel 1998

Self Portrait with Easel 1998

Erased Sel Portrait 1999

Erased Sel Portrait 1999

Head 2 - 2000

Head 2 – 2000

Empty Head - 2001

Empty Head – 2001

William Utermohlen ha realizzato i suoi ultimi disegni a matita dal 2000 al 2002. È stato curato da sua moglie, amici e badanti a casa fino a quando il suo deterioramento ha reso necessario il suo ingresso nella casa di cura Princess Louise nel 2004. È morto nell’ospedale di Hammersmith, Londra, il 21 marzo 2007.

Dalla loro esibizione al Wellcome Trust di Londra nel 2001, i ritratti hanno ricevuto un riconoscimento anche da parte della comunità medica, della stampa e del pubblico.
Oggi raccontano il dramma di una malattia senza pietà; sono un monito per non perdere mai l’opportunità tutta umana di guardarsi dentro e, paradossalmente, una speranza per non essere dimenticati attraverso le nostre opere e le nostre esperienze.

 

 

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Arte & Letteratura, Società

La lunga strada di sabbia: una recensione sulle orme di PPP

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Alcune pagine degli articoli originali

Lo confesso, ho sempre amato la gigantesca portata intellettuale di Pier Paolo Pasolini. L’ho amata sin da ragazzino, quando ho provato a recepirne i riflessi sparsi in tutti i suoi libri, quando ho trascorso ore ad ascoltare i suoi interventi televisivi, a cercare di capire (e carpire) l’audacia interpretativa dei suoi capolavori cinematografici.
Mi ha accompagnato sempre, in ogni momento di crescita fisica e intellettuale, e credo di poter affermare con certezza che il punto di svolta, di passaggio dall’età dell’adolescenza a quella adulta, sia stato un libro mai finito, un affresco nero e incompleto di quello che fummo e che probabilmente siamo, il libro  Petrolio. Con questo grosso volume, la cui stesura fu interrotta dall’uccisione del poeta Pasolini, ho compreso il peso che lo scrittore avvertiva su di sé, scevro e al tempo stesso impregnato sino al midollo dalle oscenità politiche e sociali del suo (nostro) tempo. Con Petrolio ho smesso definitivamente di cercare scappatoie alle schifezze del mondo: erano lì, davanti a me e a tutti noi, ed evitarle non sarebbe stato più possibile.


Qualche tempo fa, mi sono imbattuto in un libro fotografico composto dagli appunti elaborati in articoli per la rivista “Successo”, scritti da Pasolini nel 1959, per raccontare un viaggio lungo le coste italiane. La lunga strada di sabbia (pubblicato da Contrasto nel 2005) è un reportage del poeta romagnolo nato da un percorso poi ripreso dal fotografo Philippe Séclier, che a quarant’anni di distanza ne ha ritratto i luoghi e gli scenari sociali. È un libro, degli appunti (con tanto di manoscritti originali), che non avevo mai letto e che consiglierei a tutti.
Nelle pagine di questo lungo cammino, al volante di una Fiat Millecento, c’è l’Italia del boom economico ancora incerta, sincera eppure già corrotta in molti aspetti. Nelle migliaia di chilometri percorsi ci sono i locali alla moda e senz’anima della riviera romagnola (o meglio con un’anima venduta al progresso), la miseria di alcune periferie sociali e culturali dove si rincorre ancora il tozzo di pane per sopravvivere ma, soprattutto, c’è molto incanto.


L’Italia vista da Pasolini nel 1959 è tutto un susseguirsi di emozioni, come quando superata Roma, provenendo dalla Liguria, gli si dipana davantil’affascinante Sud. Pasolini è un bambino alla ricerca delle sensazioni di gioia e verità già perdute sul finire degli anni cinquanta e forse mai pienamente recuperate.
In quell’Italia Taranto è ancora un città antica e meravigliosa, il suo mare cristallino e la Puglia un paradiso di persone vere. L’Ilva è solo un fantasma, i mostri dell’Italia, di cui ci scandalizzeremo solo più avanti, sono tutti presenti in nuce negli angoli visitati dallo scrittore. Eppure tutto sembra avere ancora una speranza, derivante più che altro dal passato, dai contadini, dai ragazzi dai volti spigolosi del Sud, dalla passionale innocenza dei giovani del Nord.
L’Italia mi è parsa un vero unico paese, leggendo il libro, ed era molto che non la vedevo così. Diversa, diversissima da costa a costa, da settentrione a meridione, passando per le borgate romane. Un paese di cui si fa presto a sentire la mancanza non appena lo si incontra, fosse anche attraverso le pagine di un libro, e che tuttavia è la stessa terra che abbiamo lasciato scivolare nell’indecenza dell’abuso, edilizio e non solo. Nel vandalismo della corruzione ad ogni costo.
Ho avuto voglia di ripercorrerla quella Italia, quella di oggi. Il viaggio continua ad essere la miglior forma di confrontarsi con la realtà, quella di un paese vivo, ma solo sotto la superficie, laddove le volgarità di certo progresso faticano ad attecchire e dove le differenze culturali si trasformano in opportunità.
È un libro che dovrebbero leggere tutti. Un viaggio per chi ha smesso di sognare per colpa di qualche euro in più.

 

[Già pubblicato per Pronews]

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Arte & Letteratura, Società

Bilbolbul, il fumetto italiano nell’epoca coloniale

festival-fumetto-bologna_650x447Se proprio si vuol giocare a riavvolgere il lungo nastro della storia del fumetto italiano allora bisogna necessariamente partire dal principio del secolo scorso, quando l’Italia era ancora monarchica, le tragedie fasciste erano sì un puntino riconoscibile, ma ancora lontano all’orizzonte e un terribile terremoto stava per sconvolgere Messina e Reggio Calabria.

Era il 1908 quando vide la luce il celebre Corriere dei Piccoli, che avrebbe accompagnato sogni e fantasie dei bambini per circa un secolo. E su questa piccola ma strepitosa pubblicazione capace di accogliere tra le sue firme i migliori autori del fumetto, fece la sua comparsa un personaggio buffo, con la testa perennemente tra le nuvole e metafora vivente di sé stesso. Il suo nome era Bilbolbul, e il suo disegnatore si chiamava Attilio Mussino, divenuto poi famoso, tre anni più tardi, per aver illustrato l’edizione del 1911 delle Avventure di Pinocchio.

Bilbolbul è un bambino nero che vive nell’Africa coloniale rappresentata con tutti gli stereotipi negativi del momento: primitiva, ingenua e… da conquistare. Ma muovendosi in un mondo immaginario con avventure sempre al limite del reale, ha il pregio di riuscire a separarsi dalla visione retrograda che gli impone la cultura colonialista. La oltrepassa continuamente e infischiandosi del contesto in cui è relegato si abbandona a situazioni paradossali ed incredibili.

La caratteristica principale di questo divertente ragazzino, è che incarna in maniera letterale qualsiasi metafora venga proposta dalle didascalie (non ci sono ancora le nuvolette nei fumetti).

Se Bilbolbul “tocca il cielo con un dito” per la felicità, allora la sua mano si allungherà sino ai confini dell’atmosfera; se “mette le ali ai piedi” e scappa via, si trasformerà in un piccolo Mercurio. Allo stesso modo “farsi in quattro” per gli altri, vorrà dire dividersi in altrettanti pezzettini, che la madre o i parenti, ricomporranno poi con pazienza in più di un’occasione.

Bilbolbul è più di un personaggio dei fumetti, è un simbolo del potere della fantasia, sopra tutto e tutti, anche in un’epoca storica rigida come quella coloniale. Il razzismo di cui è impregnata questa cultura, grazie alle sue avventure sembra farsi da parte o almeno prendersi una pausa, e offrire sprazzi di puro divertimento a colpi di matita e immaginazione.

Il gran merito della riuscita del personaggio è senza dubbio di Attilio Mussino, che oltre alla sua abilità di fumettista, abbina la sua esperienza di pittore alla tecnica. Le tavole che rappresentano Bilbolbul hanno infatti il pregio di elevarsi dalla quotidianità e consegnarsi alla storia del genere, proprio come accade con degli eccellenti quadri.

Il fatto di essere considerato il padre dei fumetti italiani e il valore dell’impatto sociale delle avventure di Bilbolbul, hanno portato uno dei più importanti festival di fumetto d’autore ad assumere il suo nome. Ogni anno, dal 2007, Bologna celebra infatti il Festival Internazionale del Fumetto – Bilbolbul. Un modo eccellente di tenere viva la memoria di un personaggio storico, certo, dal punto di vista anagrafico, ma soprattutto in grado di raccontare i segni di un’epoca che oggi, dopo oltre cento anni, è bene non dimenticare.

[Articolo scritto per Plain Ink]

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Arte & Letteratura, Società

Il samba a fumetti di un artista italiano.

angelo agostiniQuando Angelo Agostini, italiano di Vercelli, lascia Parigi per trasferirsi in Brasile, nella sua valigia porta con sé soprattutto un enorme carico di fantasia e una spiccata vena artistica. Segue la mamma, cantante lirica, e sogna un futuro da fumettista, anche se il fumetto, come lo conosciamo oggi, ancora non esiste. È il 1859, e Angelo Agostini ha sedici anni. Di lì a poco segnerà la storia del fumetto brasiliano.

Ha stile preciso sin dalle origini, e una tendenza innata a rappresentare con fermezza i tratti dei suoi personaggi, al punto che ancora oggi le sue tavole raccontano nel dettaglio le abitudini e i gusti dell’epoca imperiale e post imperiale brasiliana. Gli anni in cui opera, sono quelli in cui l’ombra della schiavitù è ancora lunga sulle sterminate terre del Brasile, e pur giovanissimo, non resta indifferente a questo tema. Nei suoi fumetti, sin dal principio, sono infatti presenti riferimenti alla schiavitù e all’abolizionismo che diventa un tratto dominante in molte avventure dei suoi personaggi, dove l’idea del progresso sociale fa spesso da sfondo alle vicende. Del resto già nella prima pubblicazione, curata a soli ventuno anni, Diabo Coxo, molti dei testi che accompagnano i disegni sono opera del grande poeta abolizionista Luis Gama.

Per un artista che è abituato ad essere oltre che vignettista, anche pittore, reporter, critico e fotografo, le proposte di lavoro non mancano, neppure a migliaia di chilometri da casa. Così, dopo qualche incertezza iniziale e molto sudore, arriva il primo successo professionale. Il 1869 è l’anno della svolta, e più precisamente il 30 gennaio, quando sulla rivista per cui lavora, Vida Fluminense, vede la luce la storia As Aventuras de Nhô Quim (Le avventure di Nhô Quim), che lo farà passare alla storia come il padre del fumetto brasiliano, e uno dei precursori a livello mondiale di questo genere. Si tratta della storia di un ragazzo di campagna, costretto a confrontarsi con l’enormità delle grandi città, attraverso vicende grottesche e avventurose. Agostini ad ogni numero lascia intendere che la storia continuerà sulla pubblicazione successiva e dà così vita a quello che potremmo considerare il primo romanzo grafico della storia.

La sua vita, in Brasile, si svolge a ritmi frenetici. Da Sao Paulo a Rio de Janeiro collabora con diverse testate, con pubblicazioni su pubblicazioni (alla fine saranno circa tremila tra riviste e giornali) che gli garantiscono popolarità e una vita abbastanza agiata.

Per la sua sfera privata, proprio Rio de Janeiro, costituisce un punto di non ritorno. Già sposato, inizia infatti una relazione con una sua giovane allieva, che nel 1888 dà alla luce una bambina. La relazione crea scandalo, e i due, o meglio tre, sono costretti a lasciare il paese e a rifugiarsi a Parigi, e questo non è un periodo per niente felice per Angelo Agostini. Nella capitale francese, nel 1890, a causa del secondo parto, la sua compagna perde la vita insieme al bimbo che porta in grembo.

Agostini torna allora in Brasile con la figlia e si rimette al lavoro, iniziando anche l’attività di editore. È indomito, instancabile e continua a creare storie, inventare personaggi e deliziare il pubblico con le sue avventure.

Morirà nel 1910 a Rio de Janeiro, al termine di una vita intensa e segnata felicemente dal tratto della sua matita. Il suo nome sarà per sempre legato alla storia del fumetto brasiliano, tanto che il 30 giugno di ogni anno, giorno dell’uscita de As Aventuras de Nhô Quim verrà dichiarato Giorno Nazionale del Fumetto, proprio in suo onore. In Italia, almeno per il momento, facciamo fatica a ricordare chi sia stato Angelo Agostini. Ma questa, si sa, è proprio tutta un’altra storia.

 

[Articolo scritto in sclusiva per Plainink.org]

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Arte & Letteratura, Politica

I graffiti che hanno riscritto la storia d’Egitto

Almeno sino a qualche tempo fa, camminare per le strade del Cairo voleva dire immergersi in decine di graffiti, più o meno visibili, più o meno critici verso l’ex regime di Mubarak, ma tutti in grado di raccontare un pezzo di quella che universalmente sarà ricordata come la Primavera Araba.

In una città, la più popolosa del mondo arabo, dove il 50% della popolazione è analfabeta, i graffiti nati spontaneamente dalla creatività e dalla tenacia di numerosi artisti ispirati dalla non-violenza, hanno costituito per mesi un’autentica valvola di sfogo alle pressioni e repressioni del regime. Con dipinti diversi per stile e contenuti, un folto numero di artisti ha riempito le mura della città ponendo in gioco una parte della propria vita per offrire una chiave di lettura diversa ad una grande fetta di popolazione. E lo ha fatto sfidando le autorità e pagando a volte con la detenzione, come nel caso di Mohamed Fahmi in arte Ganzeer, tenuto in prigione per una notte intera, per aver dato vita alla celebre Mask of Freedom, un uomo bendato con un sasso in bocca, riprodotta  poi a macchia d’olio in tutti gli angoli del Cairo e opera tra le più famose del movimento.

arabicgraffitti-nativezentwo-01_webIl movimento parallelo dei graffiti ha segnato in modo nuovo e incisivo, accompagnando l’intero periodo delle rivolte, il modo di esprimere con forza il proprio dissenso, ed è andato poi ben oltre i tempi delle agitazioni popolari.
In occasione dell’anniversario della rivoluzione araba, lo stesso Fahmi, nel frattempo finito anche sotto la lente d’osservazione del Consiglio Supremo delle Forze Armate, che ancora gioca un ruolo decisivo nella transizione in Egitto, lanciò attraverso la rete il Mad Graffiti Week, un vero e proprio invito al graffito pazzo. Una manifestazione di libertà in cui artisti provenienti da ogni dove venivano esortati a riempire la città di immagini e slogan all’insegna della solidarietà con il popolo egiziano. Un promemoria per ricordare, a chi già credeva in una rivoluzione assopita, che invece la forza culturale e artistica del movimento poteva e doveva continuare a raccontare i sogni di libertà del popolo egiziano, riportando la stessa arte al centro di un dibattito costante con le forze governative.

Critica, contestazione politica, ma soprattutto futuro, desideri e il tentativo di scuotere le coscienze dei cittadini del Cairo; questo hanno rappresentato e ancora testimoniano i graffiti della rivoluzione. In  una intervista apparsa su Il Manifesto diversi mesi fa e ripresa dal sito vincenzomattei.com,  Hany Khalid, uno degli artisti coinvolti, ricordava “che  il messaggio era quello della speranza e dell’amore per il proprio paese, per incoraggiare la gente a scendere in piazza, perché più diventavamo numerosi a Tahrir e più la nostra forza aumentava. Non c’era bisogno di scrivere che Mubarak faceva schifo o che fosse un ladro, era ovvio!”. E ancora Ammar, suo collega, sottolineava che “i graffiti hanno molti messaggi, alcuni si riferiscono al sistema e ai militari, altri alla strada e alla gente, altri ancora alla rivoluzione. Il messaggio dei graffiti è per tutti, sia per quelli che sono contro il sistema che quelli a favore, perché alla fine lo scopo dei graffiti è quello di smuovere qualcosa nell’animo delle persone, chiunque esse siano”.

E ci sono riusciti probabilmente, se oggi, a più di due anni da quei giorni decisivi, Il Cairo appare come un luogo in cui un futuro politico inizia a prendere vita, seppur timidamente, e in forme e tempi sino ad ora neanche immaginati. A distanza di circa trenta mesi da quella rivoluzione l’arte, quella vera, che crea dibattito e confronto, oltre che coscienza e racconto, ha raggiunto il suo scopo, contribuendo alla trasformazione della città e dell’intero paese in un luogo migliore, e soprattutto avviando un processo che ha portato ad un aumento di  consapevolezza su temi politici e sociali.

Per avere un’idea più concreta di questa rivoluzione artistica, consigliamo di seguire questo link, che fa da cornice all’interessante e-book di Elisa Pierandrei (Urban Cairo. La Primavera Araba dei graffiti), e che conduce ad una mappa interattiva del Cairo con le opere censite, con qualche riga di approfondimento per ognuna di esse anche in virtù del contesto urbano in cui sono (o erano) ubicate. Un modo per ricordare che l’Egitto, con la sua capitale, è ancora uno dei centri culturali più vivaci e stimolanti del pianeta, e che a volte un’immagine, magari tra due vecchi edifici semidistrutti, o ai piedi di un ostentato palazzo del potere, vale davvero più di mille parole.

 

[Articolo scritto per Plain Ink]

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