Società

“Doing God’s work”, ovvero il grande equivoco di essere Charlie

10931416_843835585674487_9123322211951587597_n-620x360Da quando è accaduto il terribile attentato di Parigi, e l’incredibile vicenda del supermercato preso in ostaggio, ho provato più volte a cercare di imboccare un cammino col pensiero in grado di tirarmi fuori dall’impasse mediatica in cui, inevitabilmente, si scivola in questi casi.
L’emozione, la scossa violenta a cui di colpo pare impossibile sottrarsi ci ha catapultati in un comprensibile stato di angoscia e terrore, una sensazione già provata in passato, che però sembra ora aver raggiunto l’acume massimo. Ci sconvolge questa tragedia perché in fondo, ad essere stati colpiti, stavolta sentiamo di essere stati proprio noi, non i passanti sfortunati deflagrati con una bomba, non il giornalista finito suo malgrado nelle mani di aguzzini lontani, ma noi, ovvero un obiettivo ben preciso della nostra società, eliminato come da programma, senza difficoltà, senza possibilità d’opposizione.
Trascorsa qualche ora, ho però iniziato a domandarmi se, una volta di più, l’emozione non mi avesse portato su di un sentiero contorto e fuorviante rispetto alla ricerca dell’obiettività di giudizio, e ci sono alcuni punti, nello specifico, che mi piacerebbe analizzare con un po’ di lucidità.

Siamo tutti Charlie
L’attentato ha scatenato la corsa alla solidarietà e all’unione (come sarebbe giusto per qualsiasi tragedia, a qualsiasi latitudine), ma ha anche portato tutti a rivendicare il diritto alla tanto declamata libertà d’espressione. Eppure quando Charlie Hebdo pubblicava vignette charlie-hebdocontro il Papa o contro le gerarchie cattoliche (immagine a lato) non mi pare di aver sentito politici nostrani (mi limito a quelli) difendere l’operato del giornale. Vignette considerate blasfeme e che io non sono sicuro di condividere nella loro forma, ma che formano parte di quel complesso mondo rappresentato dalla libertà d’espressione. Oggi siamo tutti Charlie, ma forse avremmo dovuto esserlo sempre, l’avremmo protetto di più. Perché libertà di manifestare il proprio pensiero vuol dire soprattutto permettere a chiunque di esprimere un’opinione contraria alla nostra (e non solo a quella degli altri).

 

 

I sicari degli dei
Possibile che gli dei del monoteismo, onniscienti e onnipotenti abbiamo sempre bisogno di un vendicatore in carne ed ossa sulla Terra? Non potrebbero una buona volta venir giù e darsele di santa (pardon) ragione? Trovo ridicolo che al mondo ci sia ancora chi agisce nel nome degli altri ma del resto è un’abitudine ben nota anche al mondo occidentale. Senza andare troppo in là (non tirerò fuori nuovamente la storia delle crociate), Dio è presente nel discorso di guerra alla Somalia di Bush senior, “Doing God’s Work! È presente in quelli di suo figlio, prima dell’attacco in Afghanistan e in Iraq, solo per citare alcuni esempi. Guerre che hanno desertificato culturalmente intere aree geografiche ancor più di quanto non lo fossero con i loro regimi e che ora si ritrovano ad essere porzioni ingovernabili del pianeta, svuotate da ogni possibilità di democrazia e perfetto focolaio di estremismi di ogni tipo.
Oggi si tende a sottolineare la matrice islamica degli attentati alla prima occasione possibile, eppure pochi anni fa lo stesso risalto non fu dato alla matrice cristiana dell’attentatore norvegese Breivik che uccise, nel nome di Dio, 77 giovani in un paio d’ore.
La religione, che del resto oggi è una ideologia più che una fede, se imposta agli altri è sempre un pericoloso fondamentalismo sociale. Poi, è chiaro, ognuno fa la guerra con le proprie armi ma io, in tutta sincerità, la coscienza non me la sento così pulita se è vero come è vero, che le politiche della mia porzione di mondo non cessano di causare scontri, frazionamenti e povertà ad altre popolazioni (approfondirò volentieri il tema in un altro pezzo).

Guerra all’occidente, o forse no
Molti in questi giorni si sono svegliati con pagine dei giornali che aprivano in modo feroce, con le immagini dell’uccisione del poliziotto di guardia alla sede dell’Charlie Hebdo, e con parole che nella migliore delle ipotesi indicavano uno stato di assedio del “nostro” mondo occidentale e delle nostre culture. L’attentato dell’altro giorno è avvenuto a Parigi, nel cuore dell’Europa, di uno dei luoghi più democraticamente avanzati. Tuttavia i terroristi di matrice fondamentalista islamica (ma che, come detto, con l’islam vero hanno poco a che fare), normalmente seminano terrore e morte soprattutto nei territori orientali. Oltre alla Siria, vi sono altre zone caldissime da questo punto di vista. Circa un mese fa, a metà dicembre, un attacco kamikaze in Pakistan, a Peshawar, ha compiuto una vera e propria strage in una scuola: circa 150 morti di cui più di 130 erano bambini. L’attacco, rivendicato dai talebani, non ha destato troppo scalpore mediatico alle nostre latitudini, non siamo scesi in piazza, non eravamo “tutti cittadini di Peshawar” e non siamo andati a manifestare alle ambasciate pakistane del nostro paese per testimoniare solidarietà. Non l’abbiamo fatto noi, non l’hanno fatto i francesi e, soprattutto, nessun quotidiano ha titolato “Guerra all’innocenza dei bambini in Pakistan” o qualcosa del genere. Semplicemente la nostra indignazione è durata 10 minuti, tra una forchettata e l’altra durante il telegiornale. Questo per dire che ogni giorno questi stessi criminali uccidono decine e decine di persone (parliamo di migliaia di morti in totale), per lo più musulmani come loro, ma che con il terrorismo, ovviamente, non hanno niente a che fare. In un mondo globale, se non impareremo ad avvicinarci alle tragedie che accadono dall’altro lato del mondo, non saremo in grado di difenderci quando le stesse cause le porteranno a casa nostra. Un problema globale va affrontato nella sua totalità.

Not in my name
Se da un lato c’è chi si serve schifosamente del Dio della guerra, dall’altro c’è chi, in queste ore, sta provando a prendere le distanze da una strumentalizzazione globale dell’attacco di Parigi per la quale musulmano=terrorista. La comunità islamica internazionale, e quindi ogni singola rappresentanza locale, sta provando a ribadire ancora una volta che queste azioni violente nulla hanno a che fare con la fede in Allah. Per sintetizzare il madornale errore in cui ci lasciamo trasportare ogni qual volta accade un episodio simile, voglio ricorrere ad un post di un mio collega di Pronews, il quale dalla sua pagina facebook scriveva: Se per 3 assassini riuscite ad odiare 1.6 miliardi di musulmani nel mondo non dovrebbe sembrarvi strano che per i 3 assassini di Stefano Cucchi si possano odiare tutte le 300 mila unità delle forze dell’ordine italiane. Lo sforzo logico è ben meno oneroso, il fatto è che non funziona proprio così. L’assurdità dell’assioma si riassume in queste poche righe (grazie Andrea!). In fondo sarebbe come se ogni italiano venisse considerato mafioso dagli altri, e vi assicuro che la percentuale di mafiosi in italia è ben superiore a quella dei terroristi musulmani.
Altrettanto evidente è, comunque, che più saranno le autorità del mondo islamico a schierarsi apertamente e con forza contro le correnti fondamentaliste, più i terroristi resteranno senza alibi. Più noi sapremo dialogare con il mondo arabo e più faremo fronte comune contro chi minaccia il vivere civile delle nostre popolazioni. Possiamo quindi scegliere se provare ad ammazzare le mosche con le granate, o togliere gli elementi che le attirano, consapevoli del fatto che chiudere le finestre non ci salverebbe.

Cavalcare l’onda dello sgomento
Ci stanno provando in tanti, ci stanno riuscendo in moltissimi. Le destre xenofobe trarranno un indubbio “vantaggio” da questi giorni di terrore. In Francia la presidente del Fronte Nazionale, pur sforzandosi di controllare la propria vena xenofoba – le elezioni si avvicinano, cliccare qui per credere – ha proposto di effettuare un referendum per introdurre nuovamente la pena di morte per atti di terrorismo. Non sarà difficile ribattezzarla “Le Pen” de mort, se continua con le sue politiche terroristiche (generando terrore nei cittadini).
Dal canto nostro, il perennemente verde di rabbia e non solo, Matteo Salvini, ha iniziato ad inveire sui social e attraverso i media tradizionali, contro qualsiasi cosa gli ricordi un musulmano o un immigrato. Ha iniziato a rilasciare dichiarazioni di una banalità e un’inesattezza sbalorditive che persino la sua proverbiale faccia da duro leghista, è parso non potesse trattenere le smorfie.

 

salviniTra le panzane di più successo, c’è quella secondo cui l’immigrazione contribuirebbe fortemente al terrorismo. Oltre a ignorare il fatto che sia nell’attacco di Parigi sia in quello di Londra di qualche tempo fa, i terroristi erano cittadini dei rispettivi paesi, cittadini europei nati e cresciuti nel nostro continente, Salvini finge di non sapere che l’odio maturato verso “il diverso” è frutto anche dei seminatori di paura come lui, in grado di spaccare le categorie sociali su valori identitari. Oltretutto, volendo approfondire, basta dare un’occhiata al rapporto tra immigrazione e omicidi nel nostro paese (ad esempio in questo articolo ben fatto) per capire che non esiste alcuna relazione tra violenza omicida e immigrazione e che, anzi, nelle regioni con maggior flusso migratorio, il tasso di omicidi è minore.

Staremo a vedere se passata l’onda emotiva (che molto spesso porta con sé cattive idee e valutazioni erronee) si inizierà a ragionare sul serio sulle vere ragioni che alimentano il terrorismo internazionale. Non bisognerà quindi soffermarsi solo sulla favoletta dello scontro fra culture e religioni. Non bisognerà far finta di ignorare che l’Europa e l’occidente tutto, da decenni alimentano queste cellule impazzite con politiche scellerate e accordi indicibili che, spesso, armano letteralmente i terroristi (in questo senso consiglio un ottimo libro sull’argomento di Roberto Biancotto).
Sogno una tavola rotonda, magari semestrale, tra leader politici occidentali e rappresentanti del mondo islamico, per discutere sulle azioni comuni da adottare per prosciugare le sacche del terrorismo internazionale, ma ho smesso di credere nella politica, o meglio nei politici. Mi affido dunque ai miracoli, laici, della modernità. Alle mobilitazioni spontanee in grado di formarsi attraverso la rete e di accomunare milioni di giovani, diversi per religione, paese e cultura per lottare uniti contro ogni sopruso, per denuniciare ogni abuso di libertà altrui. Perché sarebbe bello poter affermare sempre  je suis musulmane, chrétien et juifs, ils sont particulièrement Charlie!

[In alto il vignettista tunisino “Z” racconta a modo suo l’attacco del 7 gennaio]

Post di @Paolo_Minucci [scritto per Pronews.it]

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Società

L’associazione italiana che costruisce futuro: Plain Ink sfida Kabul

Se mi chiedessero di spiegare, in una sola parola, quello che fa Plain Ink, non avrei dubbi. Costruisce. Che cosa? Futuro.

Selene Biffi, la sua fondatrice, sempre in primissima fila nei mille progetti dell’associazione, ha sempre avuto chiara una cosa: tra il dire e il fare, non c’è di mezzo proprio un bel niente, se non un mare di opportunità mosse da una forza di volontà ferrea. Selene è un’imprenditrice sociale sin da quando nel 2004, a 22 anni, ha fondato Youth Action for Change, un’associazione no profit online, in grado di fornire istruzione e opportunità anche ai più disagiati, raggiungendo più di cento paesi nel mondo. La sua ultima sfida, in ordine di tempo, è appunto Plain Ink.

Si parte da un presupposto: i giovani sono la risorsa più importante che abbiamo, e non importa se nascono in zone depresse del pianeta, se sono analfabeti, o non hanno accesso a nozioni essenziali di igiene o salute, hanno lo stesso diritto di tutti i ragazzi o bambini del mondo ad istruirsi; a costruire il proprio futuro. Plain Ink racconta storie che possano arrivare a tutti, e portare con sé informazioni cruciali per lo sviluppo sociale in condizioni difficili.Ciò che fa, è dare soluzioni per problemi locali, in punta di piedi, per non essere respinti. E sono già migliaia i bambini che in Italia, India ed Afghanistan hanno potuto leggere le storie create appositamente per loro dall’associazione, e che parlano di integrazione, norme igieniche, salute, comportamenti sociali, sviluppo, etc.

Qualche mese fa, all’associazione è stato consegnato uno dei premi più importanti a livello internazionale per la scienza ed il sociale: il Rolex Award 2012, per aver gettato ” le basi di progetti che porteranno miglioramenti all’ambiente e alle comunità locali”. Erano vent’anni che un italiano non conquistava questo premio, e oltretutto Selene Biffi è stata la prima donna del nostro paese a riuscirci.

Ora Selene è in Afghanistan. Era lì anche nell’ottobre 2009, lavorando per le Nazioni Unite alla creazione di un sussidiario per bambini, quando un attacco terroristico fece una strage a cui scampò per miracolo. Esperienza che la segnò, ma non la fece desistere, anzi.
Ora, dicevamo, è di uovo in Afghanistan, con Plain Ink, per curare l’ultimo progetto dell’associazione, messo su grazie ai soldi del Rolex Award e della Only The Brave Foundation di Renzo Rosso: The Qessa Academy, una scuola per diventare cantastorie presso la Fondazione per la Cultura e la Società Civile di Kabul, in un paese dove sette persone su dieci sono analfabete, e la disoccupazione è la normalità. L’obiettivo è dare ai giovani che partecipano alle lezioni un’istruzione che gli consenta di trovare un’occupazione, magari attraverso organizzazioni non governative, e di trasmettere così il sapere ad altri.


Servono fondi
, questo è certo, ma Selene, come sempre, resta fiduciosa. E lo è nonostante le bombe che troppo spesso le fanno compagnia, atrocemente, a Kabul. Gli ultimi mesi li ha passati imbiancando le pareti della scuola, trattando con il vice ministro dell’istruzione afghano, affiggendo manifesti per radunare potenziali studenti, viaggiando continuamente per accendere quante più luci possibili su un progetto che per ogni giorno che passa, costruisce un pezzo di futuro in più.


Dal sito web di Plain Ink è possibile partecipare, in tutte le forme possibili. Non ci sono scuse perché con il prezzo di una birra in un pub, 5 euro, è già possibile fare molto. Anche le imprese possono giocare un ruolo decisivo, legando il proprio nome alle attività dell’associazione. 

Dimenticavo. Personalmente sono leggermente in conflitto d’interessi offrendo, ogni tanto, un briciolo di tempo anche all’associazione per scrivere qualche post per il suo sito, oltre a curare un blog per Fanpage.it su cui ho pubblicato l’articolo, ma spero possiate perdonarmi, è un peccato veniale. E spero anzi ne approfittiate per chiedermi ulteriori informazioni su Plain Ink. Credetemi, ne vale davvero la pena.

…seguono aggiornamenti…

[Articolo scritto per Fanpage.it]

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Non luoghi, Parole

Ferro

E’ un rumore intenso quello di una metropolitana. Ferro su ferro che stride e terrorizza, con l’angoscia di una linea, spesso gialla, a delineare il passo decisivo verso un luogo diverso, lontano. Raramente di un’altra dimensione, ma fortunatamente la maggior parte delle persone preferisce entrare in una carrozza e non finirci sotto…

Il non luogo per eccellenza, quello che Marc Augé definisce un posto in cui milioni di individui accostano le proprie vite senza tuttavia entrare in contatto tra loro, con l’unico pensiero dell’attesa. Che tuttavia, talvolta, sfocia in un’analisi di se stessi da seduta psicanalitica.

Mi siedo in un fresco sediolino della linea dieci di Madrid. Il colore che la contraddistingue è un blu cobalto che balza all’occhio. Tribunal, la mia fermata preferita, ed è lì che inizia una sorta di non-viaggio. Il miracolo si compie sotto gli occhi di tutti, eppure tutti siamo assorti in pensieri vaghi e filosofici pur di non considerare il fatto che la terra ci scorre sotto ma anche sopra, e il flash di luce che ci dona ogni stazione è solo un nome scritto su una parete sino a che non si riemerge alla superficie.
A volerlo fare ci si potrebbe restare dentro per ore, per un giorno intero forse. Son lunghi 293 kilometri di ferro su cui urlano le ruote metalliche del treno. La sesta al mondo per grandezza, la metropolitana di Madrid assorbe come poche in Europa.

Il tempo passa e la mia mente ha pensieri uguali e contrari a quella delle decine di persone che mi circondano. Ma ragiono su un fatto. L’attentato dell’11 marzo di Atocha, la stazione principale dei treni della città, ha un qualcosa di terribilmente vigliacco. Tutte le morti, per mano di altri sono orribili, ma colpirti mentre sei assorto, mentre sei quasi assente è una porcheria immane. Come colpire un uomo alle spalle, come soffocarlo nel sonno.
Così quel giovedì del 2004, ben 191 persone non ritrovarono la coscienza, scendendo da quei treni, ma la persero definitivamente. Altre 2057 più fortunate, avrebbero rivissuto quell’angoscia per tutta la vita.

Un non luogo, un treno, che nel giro di pochi secondi divenne il luogo simbolo di una intera nazione. Un monumento oggi ricorda quelle esistenze, una presenza lì dove l’assenza era la condizione naturale.

Sento qualcosa…mi sveglio, ma non dormivo. E’ la voce metallica, nostra materna guida della modernità, che ci avvisa che il treno sta per giungere in Plaza de España. Solo una fermata.

La prossima volta vado a piedi.

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